giovedì 31 dicembre 2015

Le uova nella Presentazione della Vergine al Tempio di Tiziano.

I Romani usavano l’espressione de ovo usque ad mala ovvero dall’uovo alle mele per definire la completezza di un’azione facendo riferimento alla consuetudine di cominciare il banchetto con un uovo e concluderlo con la frutta.
Presente nella cucina egizia l’uovo è un cibo antichissimo. I Greci consumavano uova fin dall’età di Pericle e i Romani le usavano sia per i dolci che per i contorni e per le salse, oltre a considerarle, da sole, un eccellente cibo da colazione o un entrée all’inizio del banchetto. E’ possibile che anche gli Etruschi avessero la stessa abitudine dal momento che spesso nelle decorazioni parietali delle tombe ove compaiono scene di banchetto, i convitati tengono in mano un uovo, come richiamo ad una probabile consuetudine alimentare pur con valenze esclatologiche. Cibo proibito nel digiuno quaresimale insieme alla carne e ai formaggi, le uova erano tuttavia accettate da qualche ordine religioso. Esse erano di consumo abituale alla mensa medievale dei signori e accompagnavano la più nobile carne e il formaggio come cibo povero ma prelibato. Venivano bollite, cotte in camicia, strapazzate, stufate e fritte e usate per frittate di verdura. Nutrienti ma semplici, le uova, fin dal Rinascimento, venivano ritenute cibo ideale per la convalescenza o nel regime alimentare seguente al parto.


Nella Presentazione al Tempio di Tiziano (Venezia, Gallerie dell'Accademia) colpisce, ai piedi della scalinata, la presenza di una vecchia con un cesto pieno di uova, chiaramente una venditrice ambulante venuta dalla campagna nella nobile Venezia. Cosa c'entra questo brano di genere in un dipinto religioso? Non si tratta di un vezzo del pittore, di una licenza poetica. Se analizziamo l'opera infatti vediamo che proprio in corrispondenza del cesto, sulla scala c'è la piccola Maria circondata di raggi luminosi. La storia, raccontata nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, narra come la Vergine all’età di tre anni fosse condotta al tempio dai genitori e da sola, pur piccolissima, salisse i quindici gradini del tempio mostrando così che la strada della sua santità era già segnata.
Nell’esegesi biblica l’uovo, contenitore di vita, rappresenta la speranza di una nuova nascita. Nel Mundus symbolicus di Filippo Picinelli, l’uovo che al calore si schiude, rappresenterebbe l’utero della Vergine che colpito dai raggi dello Spirito Santo ha generato Gesù Cristo. Ecco dunque la spiegazione: le uova rappresentano qui la fecondazione virginale di Maria.
da S. Malaguzzi, Il Cibo e la Tavola, ELECTA (Dizionari dell’Arte), Milano 2006. 
 

mercoledì 30 dicembre 2015

Politici di ieri: il banchetto elettorale di Hogarth

Il banchetto, convivium in latino ( da cum vivere), è l’emblema stesso della vita in comune nel cui ambito si coltivano i rapporti fra uomo ed uomo ma anche fra uomo e divinità. Dall’Antichità il banchetto costituiva un rituale sia sacro, per essere legato ad un sacrificio, che profano ma anche in questa seconda accezione conservava valenze ufficiali e celebrative che lo differenziavano da un pasto normale. Nel Medioevo e nel Rinascimento i grandi banchetti gentilizi erano un’occasione per esprimere il potere economico e sociale dell’aristocrazia che mostrava, nella capacità di organizzare quell’evento, la propria capacità strategica, il grado di civiltà e di buongusto di cui era dotato il signore e la potenza economica. Espressa nel banchetto la ricchezza non era interpretata come forma di potere utile solo a chi la possedeva ma come pubblica magnificentia, capace di provvedere alla comunità nei momenti di bisogno come le carestie.
Come consuetudine di ogni epoca e ogni cultura il banchetto è molto raffiguarato ma è soprattutto nel 600, che il convito si svincola dal soggetto storico o religioso per diventare un topos della scena di genere. E' il caso del banchetto della Campagna Elettorale di William Hogarth al Soan's Museum di Londra.






L'opera facente parte di un ciclo di quattro dipinti che illustrano la campagna elettorale, conserva la stessa marcata componente satirica della commedia di Henry Fielding, Don Quixote in England, alla quale si ispira.
Si distinguono due tavoli: uno rettangolare e l'altro rotondo. Seduto al primo un panciuto personaggio in toga da avvocato si è tolto la parrucca e si asciuga il sudore: ha finito la sua fatica e può finalmente festeggiare con la pietanza di carne che gli sta davanti sullo scaldavivande. Un osso ribadisce che il piatto forte al tavolo rettangolare è la carne. E' circondato di personaggi allegri e in grande agitazione: tutti si abbracciano, brindano, parlottano. Si tratta forse del partito vincente.
Al tavolo rotondo siede un personaggio panciuto come l'altro ma in condizioni ben peggiori. Davanti a lui una montagna di gusci di ostriche sembrano indicare che ha mangiato troppo ma la realtà è diversa: poco distante in posizione frontale, ben visibile allo spettatore, un gentiluomo ben vestito agita con la sinistra un pezzo di carta che indica con la destra: si tratta forse del risultato delle elezioni, il vero motivo per cui il leader (contraddistinto dalla parrucca) appare affranto e bisognoso del salasso che gli sta praticando il medico accanto. Se il leader è sofferente lo è ancora di più il commensale vicino colpito da un mattone alla testa. Le braccia spalancate, la bottiglia rovesciata e il libro abbandonato sottolineano la sua condizione. I particolari sono numerosi come i personaggi i cui visi e gesti aggiungono colore a questa pittoresca descrizione del momento clou delle elezioni.
Ciò che più rende quest'opera efficace e attuale è la metafora del banchetto come espressione dell'avidità di entrambi i partiti la cui unica differenza sta in fondo nel tipo diverso di tavolo e nelle diverse predilezioni alimentari. Un ultima considerazione sui tavoli: il rettangolare appartiene sicuramente al partito più conservatore perché la collocazione dei commensali varia con il variare del loro prestigio mentre il rotondo, dai posti tutti uguali, appartiene più probabilmente al partito più democratico. 

da S. Malaguzzi, Il Cibo e la Tavola, ELECTA (Dizionari dell’Arte), Milano 2006. 

martedì 29 dicembre 2015

Una raccolta differenziata sui generis: il pavimento non spazzato dei Musei Vaticani fra decorazione e culto delle Ombre.

All'origine della raffigurazione alimentare c'è l'uso romano di decorare ad encausto sulle pareti degli atrii domestici brani di natura morta con una duplice funzione: decorativa e simbolica. Se la prima non richiede spiegazioni ulteriori, la seconda si radica nell'idea che gli alimenti esprimessero meglio di qualcunque altro soggetto l'ospitalità del padrone di casa presentandosi come vere e proprie offerte per i visitatori, da gustare solo con gli occhi. Dal loro rapporto con l'ospitalità traevano l'affascinante definizione di xenia ovvero doni (da Vitruvio), dal termine greco xènos straniero.
Una terza funzione ipotizzata dalla critica è quella rituale che ravvvisa in queste composizioni una destinazione cultuale come strumenti votivi, doni alle divinità o nutrimento virtuale per le ombre dei defunti lari ancora presenti negli ambienti di casa.
Le fonti letterarie forniscono descrizioni di quelle che Plinio definisce opere di “minor pictura” e che erano spesso espressioni di virtuosismo pittorico, capace di tradurre la realtà in illusionistiche simulazioni trompe l’oeil, né più né meno come faranno i pittori dell'età aurea della natura morta europea.
Fra le composizioni descritte dalle fonti e predilette dai greci e dai romani vi erano quelle con canestre di frutta con i fichi le pesche ed uva, o il vasellame di uso domestico o ancora la selvaggina appesa.

Un altro soggetto della natura morta romana è costituito da spazzatura le cui origini cultuali, di nutrimento per i trapassati, lasciarono il posto ad una funzione decorativa assai curiosa. E' il caso di questo frammento di mosaico del II° secolo d.C. conservato nei musei vaticani.


 
L’etichetta conviviale dell’epoca prevedeva che il cibo caduto a terra non fosse raccolto prima della fine del banchetto, quest’opera, pertanto, si ispirava alla realtà e tuttavia le valenze religiose del banchetto inducono a cercarvi possibili implicazioni spirituali. Prima di destinare definitivamente una sala alla consumazione dei pasti i Romani usavano mangiare nell’atrium ove giacevano, sepolti, gli antenati. Per questo tutto ciò che toccava il pavimento diveniva sacer, intoccabile e doveva essere lasciato a terra per essere in seguito bruciato in offerta ai Lari. Cristallizzando lo stato del pavimento durante il banchetto, il mosaico eternava un auspicabile equilibrio fra i convitati e le ombre, fra vivi e morti.
Quest'uso continua per tutto il Medioevo e anche durante il Rinascimento epoca nella quale era affidato ai cani il compito di 'spazzare' i resti durante i banchetti gentilizi.

da S. Malaguzzi, Il Cibo e la Tavola, ELECTA (Dizionari dell’Arte), Milano 2006 e S. Malaguzzi, Arte e Cibo, Dossier, "Art e Dossier", 300, giugno 2013. 

lunedì 28 dicembre 2015

Una natura morta di Pieter Claesz : ricetta di vita cristiana



Nel XVI secolo Roma e i Paesi Bassi sono i centri propulsori del nuovo genere della natura morte con opere destinate ad una committenza privata. L’abilità del pittore si misurava qui nella capacità di selezionare gli oggetti, di comporli e di descriverli con accuratezza poiché quanto più erano fedeli alla realtà tanto più l’effetto trompe l’oeil raggiunto catalizzava l’attenzione. L’obiettivo primario era incuriosire e dilettare e tuttavia, nel realizzare di essere la vittima di un inganno, lo spettatore diveniva consapevole della fallibilità della sua percezione visiva e più in generale dei sensi. Così il pittore, seducendo, poteva educare.

 

E' il caso di questo dipinto di Pieter Claesz, una Natura morta con astice e aragosta (al Minneapolis Institute of Arts) ove un orologio, emblema dell'inesorabile scorrere del tempo, sancisce il tono didascalico di una composizione che altrimenti potrebbe sembrare di puro diletto. Leggiamo l'opera. I crostacei, prelibatezza marina destinata dall’epoca romana alle mense più facoltose, ci parlano dei costumi alimentari raffinati dell’Olanda mercantile come anche il piatto di porcellana, importato dalla Cina e il pane bianco. Dalla caduta dell’Impero romano d’occidente a tutto il Medioevo i contadini impiegavano cereali misti per un pane scuro e rustico mentre agli aristocratici e ai cittadini era riservato il bianco pane di grano. L’elevato tenore di vita del destinatario dell’opera è palese ma c'è molto altro. La tovaglia scomposta, il limone sbucciato in parte, e i due bicchieri non completamente pieni, segni tangibili di un pasto interrotto, alludono ad un passaggio umano.
I bicchieri ci permettono di immaginare due persone dai gusti diversi. Il roemer panciuto e stabile era usato per degustare il profumato vino bianco proveniente dalla Renania mentre l’affusolato passglass con le caratteristiche tacche era usato nelle osterie fiamminghe per comunitarie bevute di birra. L’uno descrive un consumatore esigente, forse una donna, e l’altro uno dai gusti più plebei e senz’altro di sesso maschile.
Possiamo immaginare i committenti come una coppia facoltosa e tuttavia la discreta presenza di un orologio d’oro ricorda ai destinatari come ogni piacere terreno sia destinato a finire. La decifrazione del rebus potrebbe concludersi qui senonché l’astice e l’aragosta, piatti forti di quel pasto interrotto, ancora intatti, sembrano indicare come i destinatari non abbiano ancora assaggiato la pietanza più appetitosa. La chiave escatologica permette l’inquadramento di quest’ultimo particolare suggerendo per l’intera immagine una lettura cristiana. Banditi dalla dieta ebraica, nell’esegesi biblica l’aragosta e il granchio, per la presunta abitudine di spogliarsi del vecchio involucro e rinnovare i loro gusci, sono simboli della Resurrezione. Così se il pane sbocconcellato indica che i committenti hanno già assaggiato il messaggio cristiano, di cui il pane è tradizionale simbolo, possono solo immaginare il sapore della Resurrezione perché ancora troppo giovani e vivi. In questa stessa chiave la presenza della birra accanto al vino eucaristico, è una preziosa indicazione sulla confessione dei committenti poiché prodotta e consumata perlopiù nei paesi protestanti, essa non è solo la bevanda nazionale degli olandesi ma è anche e soprattutto il simbolo della Chiesa riformata.

da S. Malaguzzi, Il Cibo e la Tavola, ELECTA (Dizionari dell’Arte), Milano 2006 e S. Malaguzzi, Arte e Cibo, Dossier, "Art e Dossier", 300, giugno 2013. 

domenica 27 dicembre 2015

La polenta di Pietro Longhi e l'arte della seduzione

La polenta come composto di acqua e farina di cereali è un alimento presente già nella cultura egizia ma era fatta d’orzo e non di mais dacchè l'importazione del mais dall'america del sud risale all'epoca dei conquistadores. E’ possibile che il termine polenta derivi dalla parola tedesca pollen ovvero fior di farina ma c'è chi sostiene che essa discenda dal vocabolo puls con il quale i latini chiamavano un impasto a base di farro menzionato da Plinio e da Apicio. Lo stesso tipo di cereali o anche orzo miglio e grano saraceno, sminuzzati in un mortaio, amalgamati in un paiolo con acqua e rimestati fino a cottura ultimata erano impiegati nella cucina contadina medievale per polente da condire con olio o lardo di maiale.Si trattava di un cibo destinato ai poveri e tale rimase anche quando al posto della farina di fava, di farro o d’orzo fu introdotto il granturco. Il mais giunse dall’America precolombiana grazie a Cristoforo Colombo, che, nel suo Giornale di Bordo, non manca di parlare del cereale dicendo che ha un sapore gradevole e che tutta la gente del paese vive di quello. In Europa la cultura del mais si afferma gradatamente a partire da trent'anni dopo e ha il suo apice nel 1630, anno in cui Venezia fu colpita da una tremenda carestia. Per sconfiggere la fame si ricorse ai cereali e fra questi anche al mais.

L’affermazione definitiva del mais come ingrediente fondamentale della polenta avvenne tuttavia nel Settecento e non più come alimento contadino ma come esotica trovata gastronomica dei ceti più abbienti.




E’ nella sua qualità di alimento democratico caro al pensiero illuminista e gloria patriottica della Repubblica di Venezia che Pietro Longhi, cronista della vita veneziana, la elegge ad attrazione centrale di questa scena di genere. In quest'opera (alla Ca' Rezzonico di Venezia) la scena si svolge all'interno di una cucina piuttosto semplice di cui si intravede l'ampio camino. In piedi una fanciulla sorridente tiene il bastone con il quale ha girato la polenta mentre indica la cuoca in atto di rovesciarla dal paiolo sul canovaccio. Sono loro le protagoniste della scena o è la polenta?
Il giovane musicista, intento a suonare una romantica serenata, sembrerebbe più interessato alle fanciulle che al loro fumante prodotto mentre l'altro, nel fissare con intensità la polenta, toglie ogni dubbio sulle sue preferenze. Gli atteggiamenti eloquenti dei due giovani ci permettono di osare un'interpretazione più filosofica del dipinto nel quale il giovane musicista potrebbe rappresentare il lato romantico dell'amore mentre quello affamato la passione carnale. Dietro alla metafora dell'elaborazione gastronomica della polenta potrebbe quindi celarsi un riferimento alle arti seduttive femminili di cui le avvenenti cuoche dallo sguardo malizioso sembrano essere esperte e consapevoli utilizzatrici.  

da S. Malaguzzi, Il Cibo e la Tavola, ELECTA (Dizionari dell’Arte), Milano 2006 e S. Malaguzzi, Arte e Cibo, Dossier, "Art e Dossier", 300, giugno 2013. 
 

sabato 26 dicembre 2015

Il paese della cuccagna di Pieter Brueghel


Aleggia la fame dietro al Paese della Cuccagna, un'opera didascalica nella quale il pittore, Pieter Brueghel (Monaco, Alte Pinakothek), evoca il ben noto luogo dell'utopia gastronomica con umorismo e senso del paradosso.





 Ci sono cibi ovunque in questo paesaggio immaginario: accanto alla capanna si legge una forma di formaggio mentre in lontananza una staccionata di lucaniche separa la terra ferma dallo specchio lacustre dal colore candido del latte. Non lontano dal singolare lago vicino ad un improbabile cactus di pane si aggira un maialino, emblema della gola, già munito del coltello necessario alla consumazione mentre un’oca, simbolo dell'ostinazione nel peccare, giace, poco distante, su un piatto di peltro. Il tetto della capanna coperto di focacce è la trasposizione visiva di un proverbio fiammingo che così descrive il luogo ove regna l’abbondanza e si vive nella pigrizia.I protagonisti della scena: un militare, un contadino e un aristocratico intellettuale (lo indica il libro accanto) giacciono a terra vinti dagli eccessi alimentari visibilmente non più in grado di svolgere alcuna attività. Con paradossale umorismo ne denuncia l’ingordigia un uovo in primo piano che sebbene troppo vecchio per essere mangiato (lo mostrano le zampette del pulcino ormai formato al suo interno) non è stato risparmiato ad un maldestro tentativo di consumazione denunciato dal coltello nel guscio.I tre personaggi di estrazione sociale varia denunciano la trasversalità delle intemperanze alimentari e con esse forse la trasverslità del gusto della trasgressione tout court.Nel dar forma ad una fantasia generata dalle privazioni alimentari inaspritesi durante il regime repressivo del duca d’Alba, Brueghel ne mostrava i paradossi nel contempo esprimendo i rischi insiti nella delicata operazione di trasformare in realtà ciò che nasce come sogno e tale sarebbe auspicabile che rimanesse.

da S. Malaguzzi, Il Cibo e la Tavola, ELECTA (Dizionari dell’Arte), Milano 2006 e S. Malaguzzi, Arte e Cibo, Dossier, "Art e Dossier", 300, giugno 2013. 

lunedì 7 dicembre 2015

Ostriche e champagne di Jean-François de Troy al Musée Condé di Chantilly


Forse non tutti sanno che la fama delle ostriche come cibo afrodisiaco risale all'epoca romana.Anche i Greci ne facevano consumo...la pratica dell'ostracismo che consisteva nel votare l'espulsione di un cittadino scrivendone il nome sul guscio delle ostriche deriva proprio dalla consuetudini dei Greci di consumare i molluschi ed evidentemente di conservarne i gusci.

I Romani avevano escogitato una tecnica di allevamento descritta da Varrone che racconta infatti come un tale Sergio avesse intravisto la possibilità di lucrose speculazioni grazie alla costruzione di vivai di ostriche (De re rustica, III, 3. 10). Come oggi anche nella gastronomia romana le ostriche erano un cibo pregiato e venivano lavate con l’aceto e conservate in un vaso siglillato con la pece. L'idea che avessero un potere afrodisiaco va forse rintracciata nel simbolismo femminile della conchiglia già presente nella leggenda dell’ostrica perlifera narrata da Plinio secondo il quale la fecondazione del mitile perlifero avverrebbe infatti grazie alla rugiada penetrata attraverso le valve del guscio aperte volutamente dall’ostrica in certi periodi dell’anno (Naturalis historia IX, 107). Un racconto antropomorfico...beh, sta di fatto che questo racconto attraversa il Medioevo che lo carica di valori mariani e giunge al Rinascimento. Nel De honesta voluptate et valetitudine (lib. x, cap. 366)Bartolomeo Platina, bibliotecario del papa, racconta dei poteri afrodisiaci delle ostriche. In Francia, in Inghilterra e in Olanda ma anche in Italia le ostriche erano pescate dai banchi naturali e rappresentavano un alimento comune nella gastronomia medievale e poi rinascimentale. In tutta Europa la persistenza di quest'alimento nelle abitudini gastronomiche si associa ai concetti ad esso attribuiti. E' il caso di questo animato dipinto di Francois de Troy, datata 1735 e commissionata dal re (Luigi XV) per la sala da pranzo degli appartamenti privati a Versailles.  


In un ambiente affrescato a quadrature architettoniche e sculture di bronzo, libera citazione della magnificenza di Versailles, un gruppo di nobiluomini, in un clima di scomposta allegria, consuma un banchetto il cui piatto forte è costituito da ostriche in quantità. I gusci in terra fuoriusciti da un contenitore riservato ai rifiuti sottolineano il disordine e l'atmosfera di euforia etilica che i servitori non riescono a contenere. Uno dei camerieri a terra accanto ad una tinozza lava le stoviglie d'argento sorvegliato dal nobiluomo che con l'indice gli fa notare un piatto di portata in attesa di essere asciugato e prontamente riutilizzato. E' simile a quello gremito di ostriche che un altro servitore sta recando a tavola. Con le ostriche corrono fiumi di champagne. A sinistra un banchettante ha appena tagliato la capsula, il tappo è saltato mentre alcuni con aria divertita, alzano gli occhi per seguirne la traiettoria. Altri versano e bevono. In primo piano la scorta di bottiglie immerse nel ghiaccio del tavolo di servizio, promette ripetuti brindisi. La statua di Venere che osserva la scena dalla nicchia dipinta sopra il tavolo non è solo una decorazione ma una vera dichiarazione programmatica che annunciando le intenzioni di quel maschile convito ci fa ipotizzare che i nostri aristocratici personaggi, ebbri di champagne e con i sensi risvegliati dalle ostriche, cercheranno presto un epilogo erotico al loro banchetto.
Quest'opera è un vero manifesto di quello spirito: raffinato, edonistico e libertino che si identifica, nell'immaginario collettivo con la Francia stessa.
Si radica nel Settecento quest'idea moderna della Francia, e certo De Troy (un allievo del più noto Antoine Watteau) ne è un interprete fedele. Francesi sono le ostriche di Bretagna che tutt'ora si trovano nei mercati e nei chioschi delle strade di Parigi ma soprattutto è gloria francese lo champagne nato per caso dalla fermentazione del vino dell'abbazia di Hautvilliers e divenuto, nella seconda metà del Seicento, la bevanda d'elite creata dall'abate Dom Pierre Perignon.


da S. Malaguzzi, Il Cibo e la Tavola, ELECTA (Dizionari dell’Arte), Milano 2006 e S. Malaguzzi, Arte e Cibo, Dossier, "Art e Dossier", 300, giugno 2013. 

Il vino del Bacco di Caravaggio agli Uffizi

Aristofane ne I cavalieri (89-97) dice: “Quando gli uomini bevono divengono ricchi, prosperano gli affari, vincono le cause, sono felici e aiutano gli amici”...questo è del vino il lato edonistico e più squisitamente terreno e tuttavia, già nell'Antichità classica, questo misterioso nettare svolgeva una riconosciuta funzione spirituale. I Greci consegnano a Dioniso i riti e i costumi della vendemmia poiché il giovane dio pellegrino e pugnace nella sosta a Naxos, con la sposa Arianna, insegnò agli uomini la coltivazione della vite. Nel simposio greco il vino seguiva l’ultima pietanza ed aveva un ruolo fondamentale per il carattere magico dell’ebbrezza dionisiaca poiché, modificando lo stato di coscienza, era riconosciuto dai filosofi come un mezzo per il superamento del sé e il raggiungimento di un contatto più stretto con il divino. Il culto greco del dio Dioniso penetra a Roma assumendo modalità del tutto analoghe, mentre il vino diviene protagonista anche nel convivio romano.
Non appartiene alla Antichità classica ma è un vero romano del popolo il Bacco di Caravaggio agli Uffizi: un adolescente dal volto paffuto e dal colorito rosato, forse per l'effetto di quello stesso vino che con fare invitante porge allo spettatore. La toga fatta in casa drappeggiata attorno al corpo e l'improvvisata corona di pampini e grappoli contrastano in modo leggero...quasi ironico... con le unghie sporche, i tratti veri e gli occhi vivi del realistico modello, suggerendo come l'erudita identificazione nascesse forse dal desiderio di compiacere il committente, il cardinale Francesco Maria del Monte più che di conferire al fanciullo l'aspetto nobile di una divinità pagana.




La bella coppa di vetro soffiato protesa dal giovane Bacco verso un ideale spettatore fa di questo vino dipinto la raffigurazione efficace ed immediata di una dichiarazione d'amicizia dipinta, voluta forse dal committente per suggellare la sua con Ferdinando de' Medici cui, con ogni probabilità, era destinata l'opera. L'altra mano sul fiocco nero farebbe pensare proprio all'espressione simbolica dell'amicizia intesa come piacevole legame dacché il fiocco unisce ed orna allo stesso tempo. La collocazione agli Uffizi sembrerebbe sottolineare questa versione dei fatti sostenuta da Claudio Pizzorusso (Amicizia di Bacco. Variazioni su un tema del Caravaggio, “Artista” 1998, pp. 8-17) che fa risalire il rapporto fra i due al periodo in cui Ferdinando era cardinale e risiedeva a Roma, prima di tornare a Firenze per prendere in mano, alla morte del fratello, le redini del Granducato.
La fruttiera, quasi una firma dell'autore (rimanda alla canestra della Pinacoteca Ambrosiana e anche alla Cena in Emmaus della National Gallery), sembra qui fare da contraltare al vino: laddove essa è appoggiata mentre il calice le è sospeso sopra. Forse Caravaggio con la fruttiera di frutta in avanzato stato di maturazione voleva sottolineare come sebbene il sapore dolce dei piaceri terreni sia destinato a svanire con il trascorrere del tempo, il valore spirituale dell'amicizia trascendendo il piano della materia sia destinato a rimanere inalterato come un buon vino vecchio.

da S. Malaguzzi,  Il Cibo e la Tavola, ELECTA (Dizionari dell’Arte), Milano 2006 e S. Malaguzzi, Arte e Vino, Dossier, "Art e Dossier", 268, Luglio-Agosto 2010. 



giovedì 29 ottobre 2015

Vertumno, il ritratto di Rodolfo II

Il gusto è la capacità che la natura ha dato all'uomo di percepire i sapori e con essi distinguere autonomamente ciò che nutre da ciò che nuoce alla salute. Lo stesso termine è usato in filosofia per designare la facoltà che permettere all'uomo di discernere il buono e il bello, la capacità individuale di apprezzare certe qualità umane della natura e dell'arte. Mi piace pensare che sia stata proprio l'ambiguità del termine gusto a determinare, oltre le iconografie specifiche e i filoni artistici, l'interesse di molti artisti per il cibo come oggetto meritevole di elaborazione pittorica. Di tutti gli alimenti raffigurati penso che il primato vada senz'altro alla frutta e alla verdura della quale voglio presentarvi qui, come incipit di questo blog, il Vertumno di Giuseppe Arcimboldo (conservato a Stoccolma nel castello di Skokloster).

Si tratta di una natura morta sui generis, un cosiddetto capriccio sullo stile inventato dal pittore milanese in un'epoca nella quale frutta e verdura non erano considerate degne di una raffigurazione autonoma. Ben presto, nel corso della sua carriera presso la corte asburgica, l'idea di combinare frutti e verdure in modo da comporre ritratti veri e propri diviene la sua cifra distintiva cosicché, a Rodolfo II, vera identità di Vertumno, non parve affatto irriverente l'essere presentato come un assemblaggio di alimenti ché anzi era a tutti chiaro l'intento celebrativo, considerato che Vertumno era una divinità pagana, protettrice dei giardini, degli orti e dei frutteti e abile nel travestimento agreste. 



Stacchiamoci per un attimo dalla lettura d'insieme dell'opera per analizzare le diverse qualità di frutta e verdura. Dall'alto verso il basso di distinguono: sotto una corona costituita da spighe di orzo e grano, uva, ciliegie, prugne, melagrana, ribes e olive, una melanzana e una pannocchia di granturco prende forma un volto composto da una zucca, piselli, nespole, giuggiole, pesche e mele, albicocche, nocciole nell'involucro e castagne ancora nel riccio. Sul collo vari generi di cucurbitacee e cipolle si confondono con le rape e l'aglio mentre le spalle sono costituite: la destra da cavolo e insalate e la sinistra da preziosi carciofi. Una ghirlanda di fiori simula una decorazione cavalleresca...dell'ordine del peperoncino rosso...visto che questa varietà si distingue sul petto di questo singolare imperatore.
Questa wunderkammer di naturalia commestibili accanto all'intento raggiungere un apice assoluto di bizzarria serviva da inventario visivo di questi generi che non potevano essere collezionati altrimenti perché deperibili. C'era poi l'obiettivo encomiastico che si non esprimeva solo nell'aver fatto vestire all'imperatore i panni di un dio ma nell'aver scelto generi di verdura e frutta che illustrano tutte e quattro le stagioni dell'anno proponendo l'Imperatore come il signore del tempo. La celebrazione non finisce qui! La pannocchia di mais e il peperoncino per noi scontati erano in quell'epoca prodotti di recente importazione dal Nuovo Mondo. Del primo sappiamo che giunse dall'America grazie a Cristoforo Colombo che nel suo giornale di bordo non manca di parlarne ma che cominciò ad essere impiegato solo più tardi in conseguenza della carestia determinata dalla guerra dei trent'anni. Il peperoncino invece giunge dalle Ande in un momento imprecisato del Cinquecento sempre ad opera dei conquistadores sebbene il medico Pier Andrea Matthioli nel suo erbario inserendolo fra le varietà del pepe lo chiami pepe cornuto d’India.
Così con questi dettagli alimentari Vertumno-Rodolfo II, celebrato come un dio pagano, è presentato come signore del tempo e dello spazio come si conviene a chi governa l'impero su cui il sole non tramontava mai.

da S. Malaguzzi, Il Cibo e la Tavola, ELECTA (Dizionari dell’Arte), Milano 2006 e S. Malaguzzi, Arte e Cibo, Dossier, "Art e Dossier", 300, giugno 2013.